LA SARDEGNA CHE VORREI

di Gabriele Ainis

 

Faccio parte della classe d’età di coloro che vissero la propria giovinezza a forza di Coryfin C, Linus e Mafalda, illudendosi di essere di sinistra e in possesso di strumenti critici di interpretazione della realtà particolarmente raffinati.

Poi, qualcuno mi fece notare che Quino aveva copiato Mafalda dal fumetto Arturo e Zoe (che non si chiamava Zoe e Arturo per maschilismo manifesto, visto che l’originale americano faceva Nancy&Sluggo!) e decisi come fosse decisamente meglio lasciare l’illusione di capire la realtà da una strip, per cercare di sviluppare davvero un qualche modo di ispezionare decentemente il mondo, perché questo non è lineare né tantomeno intuitivo.

A quei tempi, mi pareva geniale lo stereotipo di Mafalda che si doleva dell’imbarazzante numero degli inutili problemologi, cui non faceva da contraltare una dignitosa dotazione di soluzionologi, a suo dire ben più utili dei primi. Ciò illustra molto bene come sia sorprendentemente semplice convincersi della validità di un’asserzione errata lasciandosi trascinare dall’intuizione: chi potrebbe negare l’utilità di un pragmatico soluzionologo (capace di fornire risposte valide) di fronte ad un inutile problemologo (in grado solamente di arzigogolare chissà quali astruse e astratte argomentazioni)?

La realtà, ecco chi (o cosa) potrebbe, anzi può e proprio la grave situazione della Sardegna lo dimostra.

Il mondo intellettuale sardo (soprattutto a sinistra, dai politici all’informazione, passando per scrittori, scrittorucoli&C) ha infatti passato le ultime tre o quattro decadi (più quattro che tre) sviluppando un tipo antropologico peculiare, il soluzionologo di breve termine, che si è dedicato solo e unicamente ai problemi contingenti sollevati di volta in volta dalla cronaca (politica e non) elaborata dal giornalista di breve termine, altro tipo antropologico simbionte del precedente, cui lo accomuna la visione ristretta del mondo e l’incapacità di dedicarsi a ciò che dovrebbe: immaginare come potrebbe essere la nostra società di qui a qualche tempo e cercare di influire sulla realtà in modo tale da adattarla ad una precisa idea del mondo in cui si vorrebbe vivere. Detto in una parola, l’intellettualità isolana (soprattutto a sinistra) non è stata capace di sviluppare alcun problemologo dignitoso!

Eppure i dati oggettivi non mancano. Qualche esempio?

L’isola invecchia: la curva di distribuzione della popolazione per età si sposta verso l’alto.

L’isola si svuota: l’indice demografico indica come le donne non abbiano alcuna intenzione di contribuire a rimpiazzare i defunti e le persone partono per cercare lavoro perché…

… l’isola si deindustrializza: la distribuzione del PIL si sposta verso attività non produttive e le esportazioni cadono in una preoccupante situazione di monopolio (neppure Ray Bradbury avrebbe potuto immaginare la Sardegna come esportatore di sola benzina!).

Dunque, se non interverranno azioni capaci di influire sulle attuali tendenze, la Sardegna diverrà un’isola di pochi vecchi in cui sarà difficile reperire le risorse per la loro assistenza e sarà proprio questa, l’assistenza agli anziani, il centro dell’azione politica del futuro.

Uno scenario apocalittico? No, semplicemente quanto suggerito dai numeri, cui dovrebbe immediatamente aggiungersi un’altra considerazione: non esistono politiche di breve termine (o medio, attenzione!) capaci di riparare un guasto di questo tipo una volta che si fosse determinato. In altri termini, se davvero tra una trentina d’anni (cioè domattina, presto, all’alba) ci trovassimo nella condizione appena descritta (non difficile da immaginare) non basterebbe una leggina regionale per far sì che la Sardegna diventasse magicamente, e in breve, un luogo vivibile.

Che non si tratti di un discorso campato per aria lo indica un dato oggettivo appena ricordato, quello sulla deindustrializzazione. Oggi, giugno 2012, l’unica realtà industriale – di dimensioni dignitose – sopravvissuta (non per merito delle politiche locali, si badi bene!) è proprio la SARAS, mentre il Sulcis attende il disastro annunciato dell’ALCOA e il Centro Sardegna, assieme al Sassarese, ha vissuto la tragedia dei poli chimico e tessile. Chi avesse voglia di riflettere sul passato, immagino potrebbe convenire con me come la situazione attuale si sia determinata per cronica incapacità della classe dirigente di un paio di decenni addietro. Che le aziende aprano e chiudano (e non siano eterne) è cosa nota a tutti, scontata, come il fatto che se oggi non si fanno bambini, non ci saranno trentenni nel giro di trent’anni, eppure, se ci poniamo al centro di un intervallo temporale che spazia da tre decadi dietro le nostre spalle a tre decadi di fronte a noi, leggiamo una realtà in cui (in passato) la politica si disinteressò della questione industriale e oggi (continuando a farlo) ripete l’errore per quella demografica. Risultato: oggi niente industrie, domani niente giovani (e niente industrie, non dimentichiamolo)!

Pertanto passo al titolo del post: che Sardegna vorrei?

Vorrei un’Isola in cui gli intellettuali smettessero di guardare esclusivamente la punta del proprio minuscolo pene (se parliamo di maschietti, o l’estremità dei capezzolini se femminucce). Vorrei che fossero capaci di lasciare i litigi giornalieri, in difesa delle piccole rendite di posizione e delle misere prebende, per guardare qualche centimetro più avanti nel futuro, avendo avuto l’accortezza di studiare la realtà dell’ultimo mezzo secolo che giace, evidentemente sconosciuta, dietro le nostre spalle. Giornalisti capaci di condurre un’inchiesta, storici in grado di leggere i documenti della nostra storia recente, scrittori e sognatori decisi a raccontare chi siamo davvero e chi siamo stati e soprattutto cosa rischiamo di diventare se non traiamo lezione dalla realtà piuttosto che dai sogni.

Vorrei un’Isola in cui i politici riscoprano (o scoprano, bisognerebbe rifletterci) la vergogna di vivere alla giornata, spesso comprando i voti attraverso le clientele, giustamente perseguitati dalla penna e dalla lingua degli intellettuali, nella speranza che questa non venisse usata per leccarne l’orifizio anale quanto per stigmatizzarne gli errori. Per la prima attività, pulire il culo, al posto della lingua si potrebbero usare le pagine dei romanzi di Murgia, Soriga, Todde, Agus, con tante scuse per tutti coloro che non ho citato e forse si offenderanno.

Vorrei un’Isola in cui i cittadini ascoltassero gli intellettuali che parlano della realtà (se ci fossero) e mandassero a cagare coloro che raccontano le fiabe (che ci sono, e come se ci sono!) anche se ben scritte e propagandate da Fazio o dalla Geppi, buona compagna di Mafalda e altrettanto divertente, buona per una risata e poi basta, però, perché per decidere cosa fare del futuro non possiamo mangiare il bifidus che, al massimo e non è detto, fa solo cagare!

Vorrei un’isola in cui i cittadini, ascoltati gli intellettuali che parlano della realtà, riflettessero su ciò che ci aspetta e imponessero ai politici di trovare delle soluzioni praticabili per renderlo vivibile, piuttosto che continuare ad intestardirsi nella pretesa che si possa cambiare la realtà cambiando la lingua o con un colpo di bacchetta magica, magari nuragica.

In fondo, vorrei solamente dei politici che facessero i politici e progettassero il futuro, degli intellettuali che facessero gli intellettuali e leggessero la realtà, dei cittadini che si preoccupassero anche di chi oggi ha pochi mesi e forse dovrà preoccuparsi di noi: non potremmo cercare di indennizzarlo in anticipo almeno un poco?

No, non mi piace Grillo e mi sento fortemente attratto dalla realtà e non dalla demagogia, quindi mi domando perché la sinistra non parli di futuro se non in termini tanto generici da non dire quasi niente e perché noi, cittadini, non chiediamo agli intellettuali di sinistra di smetterla con le cazzate!

Forse, è meglio che mi rilegga Peter Pan!

 

gabriele.ainis@virgilio.it

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13 risposte a LA SARDEGNA CHE VORREI

  1. panurk ha detto:

    Vorrei un’Isola in cui gli intellettuali …

    Vorrei un’Isola in cui i politici …

    Vorrei un’Isola in cui i cittadini …



    Vorrei una Sardegna semplicemente normale.

  2. alecc ha detto:

    i bambini ci saranno. saranno quelli degli immigrati.

  3. Gianni Campus ha detto:

    Caro Ainis,
    le riflessioni proposte paionmi (bello, vero?) meritevoli di partecipazione.
    Da tempo (prima con il Nuovo Movimento di Grauso, poi come assessore a Cagliari e a Iglesias) ci metto la faccia, come si suol dire; e questo vuol dire metterci potenzialmente anche altre parti anatomiche, volente o nolente.
    Tale partecipazione anatomica è legata, in larga misura, a quella che si potrebbe chiamare “responsabilità politica oggettiva”: quella responsabilità che ti coinvolge – indipendentemente da ciò che tu possa dire o fare – nelle valutazioni che vengono espresse sull’organo al quale appartieni (partito, maggioranza, giunta etc.).
    E’ giusto, è sbagliato?
    Secondo me, è giusto.
    Dicono al mio paese (Bitti, per inciso): “chi non t’eres cherfitu toccatu, non t’eres fattu càmpana”; che suona simile alla storia del voler la bicicletta, etc.: chi l’ha voluta, pedali.
    Nella stessa Bitti, peraltro, a coloro che amano “passarsi”, facendo riferimento a problemi di praticabilità e scusanti varie si ricorda che “a mariane, coa l’impedit”. Quanto la coda possa disturbare la volpe nell’esercizio delle sue malefatte, è chiaro abbastanza da non lasciare spazio a ulteriori commenti.
    Detto questo, passiamo ai distinguo.
    In un mondo di manichei, certo è facile scegliere da che parte stare; ed è facile anche in un mondo di furbi: dalla parte del vincitore, specie se “buono”.
    I problemi si pongono quando:
    – i buoni perdono (capita)
    – non si capisce benissimo chi siano i buoni e chi siano i cattivi (anche il manicheismo ha momenti di crisi)
    – il prezzo da pagare per stare con i buoni è troppo alto (leggetevi “Il Muro” di Sartre”)
    – i buoni sono una banda di merdaioli (ho studiato a Firenze).
    A questo punto non c’è rimedio: o non si sta con nessuno, e non si fa nulla, o si è costretti a stare con qualcuno (del quale si condivide il destino e il giudizio) e si cerca di fare del proprio meglio. Naturalmente, è possibile che, come diceva Battiato: “…si salverà chi non fa niente e non sa fare niente…”; ma io non riesco a crederci.
    Ora, per non farla troppo lunga: si salveranno i sardi?
    Secondo la visione apocalittica di Battiato, si; secondo me, no.
    Perchè? Perchè non fanno abbastanza per salvarsi, perchè non scelgono di esistere, perchè non sono consapevoli di dove siano – geograficamente e politicamente – e continuano ad innalzare, con insistente protervia, bandiere di tutti i tipi, politiche, nazionali o nazionalitarie – che abbiano i mori rivolti a sinistra, a destra o a centrosinistra, bendati o sbandati che siano – senza dare atto dell’urgenza di onorare tali bandiere con comportamenti coerenti e percettibili, eticamente e culturalmente. All’ombra di tali esorcistiche bandiere, non ci mettono nulla, altro che la faccia.
    Il sardo piange, ma non fuotte; piuttosto, chiagne, e viene fottuto. Sempre e comunque: si vede che gli piace. Ma, allora, di cosa piange? Forse di consolazione, come si diceva ai tempi di De Amicis. Magari un derivato del risus sardonicus.
    Il sardo, secondo il mio modesto parere, avrebbe davanti a sè una sola via: quella della qualità.
    Tutte le volte che in Sardegna essa ha fatto capolino, si è affermata. Come mai? Semplicemente, perchè al mondo non interessano i produttori di mediocrità, che si produce dappertutto anche al di sopra del fabbisogno umano, che pure è tanto. Il mondo si aspetta di essere stupito, solleticato, titillato da qualcosa di egregio, di ottimo e – magari – di scarso.
    Si può fare? Si, si può fare e – soprattutto – esportare.
    Il problema è che – se producessimo diamanti – dovremmo andare ad Amsterdam, Tel Aviv o New York: dobbiamo quindi inventare qualcosa che non si possa cavare dalle viscere della Sardegna perchè sia commercializzato altrove. E non mi riferisco alle veline.
    Che cosa?
    E che ne so? Io sono un architetto, le mie cose non si spostano mai…

  4. Gabriele Ainis ha detto:

    Gentile Campus,
    la sua partecipazione paremi (si può dire?) meritevole di una risposta.
    So per certo cosa potrebbe fare proprio lei per la Sardegna: perché non scrive un romanzo?
    Cordialmente,
    (tanto per essere chiari, non è una battuta di spirito: sono del tutto convinto di ciò che suggerisco. Connettendo la penna al cervello potrebbe fare cose egregie).

    • Gianni Campus ha detto:

      Caro Ainis,
      il mio romanzo è in cottura da (troppo) tempo: attualmente si aggira verso pagina 180.
      Il titolo, assolutamente autoreferenziale, è: “L’elefante di famiglia”.
      Se mai verrà quaggiù, mi chiami, e potrà leggerlo anche se ancora incompleto; se no, aspetti, come faccio io.
      Uno dei problemi del mio scrivere sono le dimensioni: quando queste superano le quattro canoniche (spazio e tempo) e introduconi sistemi relazionari sinaptici (per esempio logici o empatici), il gioco diventa veramente duro.
      Mah…

  5. Ale Sestu ha detto:

    Gentile Ainis,
    il suo “vorrei” al condizionale presente è pericolosamente vicino, nella tavola della coniugazione, al condizionale passato ! Mi sembra di percepire una certa qual disillusione. Io faccio ancora parte della categoria “inguaribili romanticoni” (quando compirò trent’anni la smetterò, forse), per cui, posto che condivido le sue preoccupazioni, non riesco a smettere di pensare a come porvi rimedio. Ho provato col bicarbonato, fino ad arrivare alla medicina omeopatica cinese (ha presente quei bei pastiglioni di crusca ?) ma niente… bisogna per forza entrare nel merito della questione.
    La prima domanda che mi sono posto è: da dove cominciamo ?
    Si fa prima ad incominciare da intellettuali, giornalisti, imprenditori, politici ? O si fa prima ad incominciare dai cittadini ? Anche se non vogliono che si sappia (le quattro categorie precedenti), sono cittadini pure loro.
    Se siamo immersi nel caos, bisogna trovare un punto di ripartenza (anche in modo arbitrario), e da li ricominciare. Lei ha individuato un punto di partenza preciso?
    Io sono arrivato alla conclusione che si deve ricominciare dalla partecipazione popolare (quanto più ampia possibile) alla vita politica, e contemporaneamente ricostruire una base culturale minima, che permetta alle persone di sentirsi parte di una comunità.
    La seconda è più facile della prima: ho esperienza diretta di manifestazioni popolari, che hanno riportato l’attenzione delle persone verso la propria storia; da li si è ripartiti, con interesse e coinvolgimento sempre maggiore dei miei compaesani, per scoprire ambiti culturali sempre più particolari e raffinati. (Se ho acceso la sua curiosità posso riprendere il discorso in un altro commento).
    La prima conclusione (partecipazione popolare) è più difficile, ma mi sembra l’unica che possa, a cascata, stimolare l’evoluzione di intellettuali, giornalisti, politici, eccetera, come lei auspica.

    Il punto è: come si fa a stimolare una partecipazione popolare di massa alla politica, evitando estremismi e derive demagogiche travolgenti ? Risposta: riempiendo il dibattito di idee (percepite come concrete da tutti) che puntino al miglioramento della qualità della vita. Dove si discute di idee percepite come “utili”, la demagogia non trova spazio.
    Io lego questo punto alla situazione politica attuale ed al M5S.
    In questo momento sta crescendo il consenso verso il Movimento 5 Stelle. La situazione è in evoluzione continua, e questo può essere positivo o negativo, a seconda della direzione che prenderà. Viste le percentuali già ottenute e quelle in proiezione, sarebbe un disastro se il m5s prendesse una direzione destrorsa (lo ritengo altamente improbabile, visto che nel programma stilato fin qua ci sono punti assolutamente opposti alla destra, ma è comunque possibile).
    Quindi la maniera più utile, che finora ho trovato, per ricominciare a costruire un futuro, è stata partecipare, da iscritto al M5S. Da questa posizione, già adesso, riesco ad avere una visione abbastanza chiara del futuro che voglio per la Sardegna.

    Naturalmente sono sempre pronto a cambiare idea, ma perché questo succeda devo essere messo di fronte ad una prospettiva migliore. Finora, nonostante tante discussioni con persone brillanti che frequentano gli ambienti di Sel e del PD, non ho visto prospettive migliori.

    • Gianni Campus ha detto:

      Caro Ale,
      mi complimento per la scelta, ma – soprattutto – per aver scelto.
      Io, ci sono già passato – già avanti negli anni – con il Nuovo Movimento.
      Questo non aveva avuto – allora – il successo presumibile di M5S, ma aveva piazzato ben 4 consiglieri a Cagliari (Delogu) e 2 in C. Regionale (Floris e più); Nichi era stato – in entrambi i casi – votatissimo.
      Quando il leader maximo ha cominciato a dare segnali di insofferenza, fino alla smaterializzazione (così personalmente la definii, allora), dando il via libera alla banda, tutto è finito.
      Ci furono assessori e consiglieri, sindaci etc., ma non ci fu più il N.M.: si salvi chi può.
      Alcuni “salvarsi” poterono, essendo aggrappati da qualche parte, altri rimasero a terra; di questi, qualcuno è ancora lì a lamentarsi e a sputare veleno su Grauso, altri hanno continuato serenamente a camminare: non erano nati con il N.M., e non morivano con lo stesso.
      Come S. Antonio (lu nemici di lu Dimonio). Quando Satanasso gli sottrae la forchetta per i maccheroni, “…sant’Antonio non si lagna: con le mani se li magna…”.
      Sant’Antonio, Sant’Antonio, lu nemici di lu Dimonio…
      Morale: buon lavoro, e serenità, sempre…

      • Ale Sestu ha detto:

        La ringrazio per i complimenti.
        Non conoscevo la storia del Nuovo Movimento.
        Quello che cerco però, più che altro, sono le critiche alla mia posizione, oppure le smentite a quel che affermo. Questo perché non sono sicuro della scelta; come ho detto: sono sempre disponibile a cambiare opinione.
        Ho bisogno di ragionarci intorno ancora un po’. Per questo ho cercato il confronto con Ainis: lui ha sempre descritto Grillo con toni allarmati/allarmistici, ed anche in questo post specifica che non gli piace, associandolo alla demagogia.

        Lei fa un parallelo col leader-maximo, smaterializzato il quale, tutto finisce.
        Le posso dire che non sento la stessa preoccupazione, perché io non percepisco (in Grillo, è ovvio che si riferisca a lui) la figura di leader. Il punto è che non percepisco proprio la figura di leader, e questo mi sembra un passo in avanti notevole.
        Lei non crede che un società che non ha bisogno di leaders, sia più evoluta, più matura, più colta ?

    • Gabriele Ainis ha detto:

      Gentile Ale Sestu,
      ma si figuri se desidero convincere/(cambiare le opinioni di) qualcuno. Osservo la realtà e ne traggo una lettura, né più né meno come lei. Se le piace Grillo avrà i suoi buoni motivi. In ogni caso condivido l’augurio del saggio Campus.
      Cordialmente,

  6. Tetragramma Sardo ha detto:

    Grillo – nella ponderata e sintetica opinione di un intervistatore israeliano (di fronte al quale il Grillo si è totalmente ricoperto di materiale organico di scarto, creando un casus belli con Israele) – è un attore che sa bene ciò che il pubblico vuole da lui, ma non sa ciò che egli stesso vuole. Se mai entrasse nel governo Italiano, la sua politica estera sarebbe certamente dettata dal suocero iraniano, che gli ha spiegato fino a che punto Ahmadinejad sia volutamente mal tradotto oggi, come a suo tempo era strumentalmente mal tradotto Bin Laden.
    Mi viene quasi il dubbio che le due torri siano crollate perché qualcosa si è perso nella traduzione.

    • Gianni Campus ha detto:

      Tipo: “Te lo do io, l’Iran”?

      In realtà, a parlare di qualcosa, in questo Paese, ci si rimette sempre: se parli di donne, sei maschilista, se parli di uomini sei gay, se parli di gay, sei omofobo.
      Quando si parla di Rom, di extracom, di israeliani, è proprio meglio non farlo: sei – indipendentemente da quello che dici – razzista.
      Il principio di indeterminazione di Eisenberg applicato al pensiero: sfiorare questi temi per conoscerli, è come contaminarli e renderli definitivamente inconoscibili. Sono tutti temi ineffabili, come l’espressione del Nome di Dio: pronunciarlo, è già un peccato. Pronunciarli con l’uso di tratti sovrasegmentali (intonazione) introduce, infatti, la perversione del giudizio; scriverne (senza alcuna intonazione) è equivoco e ambiguo.
      Malgrado tutto questo, sono costretto a fare outing: quando sento la parola ebreo, avverto – e non scherzo affatto – un dolore non sopito per quanto gli uomini hanno fatto e consentito, e mi chiedo se sarei stato capace di alzarmi e dire quello che andava detto. Temo purtroppo di no, dato che – come tutti, o quasi – assisto in silenzio al perpetrarsi degli orrori di oggi.
      Quando sento la parola “Israele”, non riesco a trattenere un moto di ammirazione e – ancora – di pietà: la storia ha già scritto tragedie che sarebbero bastate per dieci popoli, ma – purtroppo o per fortuna che sia – questa non è ancora finita.

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