TUVIXEDDU: LA MARCIA DEI DIECIMILA

di Gabriele Ainis

 

Alla fine Tuvixeddu, con diecimila visitatori, è risultato il luogo più frequentato in occasione della Giornata del FAI. Ciò è molto italiano, perché il FAI con il cimitero punico romano, che il caso e la fortuna ci ha fatto pervenire attraverso più di due millenni, non ha nulla a che fare. Come dire che si indice la giornata di Michelangelo e poi tutti corrono a vedere la Gioconda. Abituati alla bizzarria delle cose italiane non possiamo fare altro che prenderne atto e trovarlo «normale» nel quadro della nostra anormalità quotidiana, forse addirittura emblematico.

Poco male: quando mai una visita al quadro più famoso del mondo può essere considerata un fatto negativo?

Anche questo è molto italiano, soprattutto nell’Italia di oggi che ha inventato i «Beni Culturali». Siamo talmente abituati a straparlarne, che neppure ci ricordiamo che è trovata recente, di ieri se confrontata con l’immenso lascito stratificato nei molti secoli che ci hanno preceduto, opera di chi ha abitato i luoghi nei quali siamo nati. Per noi, oggi, è normale sovrapporre cultura ed «evento», ponendo al centro del rapporto con arte e storia un curioso approccio mediatico che vorrebbe il «bene culturale» oggetto di «fruizione» consumistica, possibilmente generatore di reddito (un «bene» appunto, come un alloggio da affittare) o, al minimo, soggetto attivo di interesse sociale (da affidare ad una «cooperativa di gestione» per la creazione di posti di lavoro).

Insomma, tanta e tale è la confusione del poco che ancora resta del nostro mondo culturale, che neppure ci interroghiamo più su una questione fondamentale: cos’è Tuvixeddu?

Non stiamo a scomodare uno dei tanti lessici che potrebbero intervenire, archeologico, storico, antropologico, politico, poniamoci piuttosto nella condizione di essere ciò che siamo: cittadini di una città e persone adulte, possibilmente desiderose di abitare in un luogo in cui ci si metta d’accordo tutti per creare un modo di vivere sereno. Vorrei usare la parola «felice» ma mi pare eccessivo: «sereno» è più adatto, perché implica concordia ma non esclude il confronto, anche aspro.

Messa così, suggerisco una risposta: Tuvixeddu è il dagherrotipo del bisnonno, quello che si conserva con cura anche senza un preciso interesse direttamente monetizzabile. Un’immagine che racconta le nostre origini, o parte di esse, insomma, e che desideriamo trasmettere ai nostri figli e nipoti, sapendo che anche loro saranno interessati a fare lo stesso per il futuro aggiungendo ciò che verrà, la nostra immagine, magari, contenuta in un CD o stampata su un pezzo di carta.

Dalla fotografia del bisnonno non ci aspettiamo reddito, un guadagno, al massimo possiamo pensare di prestarla ad una mostra di vecchie immagini, di concederla ad uno storico che scrive un libro e necessita di figure per illustrare il passato. La mostriamo agli amici, se capita e se sono quelli giusti con i quali si possa condividere l’interesse per una storia capace di insegnare qualcosa all’oggi, ma soprattutto pretendiamo di stimolare un rapporto tra quelle vecchie immagini sfocate e i nostri figli, coloro che abiteranno la famiglia in futuro, se ci sarà una famiglia e se ci sarà un futuro.

Ecco: Tuvixeddu è il ricordo del bisnonno di tutti noi, il lascito concreto di chi abitò Cagliari prima che ci capitasse di nascerci o abitarci. Racconta ciò che furono i cagliaritani in un preciso intervallo temporale di quasi due millenni addietro, insegnando all’attualità la ricchezza di un mondo ben più limitato nella velocità di trasferimento dell’informazione ma non per questo isolato e chiuso in sé stesso. Una fotografia che mostra i segni del tempo ma che restituisce gli esiti del sovrapporsi delle vite personali delle donne e uomini di allora, ciascuna guidata da una propria visione del mondo. Tutti hanno lasciato un segno, nascendo o arrivando ma comunque abitando a Cagliari e infine deponendo nel calcare gli ultimi resti di sé.

Sarà anche una metafora stantia, ma il colle traforato di tombe è la macchina del tempo che ci permette di riconnetterci ad un pezzetto remoto della nostra identità individuale, al nostro essere cittadini di una Cagliari così piena di contraddizioni e proprio per questo bisognosa di riflettere sul passato per individuare una buona strada di sviluppo per il futuro.

È uno stereotipo apparentemente banale, certo, eppure come non pensare alla lezione di un colle che ci riporta ancora una volta – e nonostante l’obbrobrio delle quattro oscene e inutili torri di cemento armato – un paesaggio funerario risultato di un lungo periodo che vide la sintesi, straordinaria, di apporti differenti operata nel mondo punico, prima, e in quello romano poi? Come non riflettere sulle sterili discussioni attorno a quell’assurdo e ascientifico concetto di «vero sardo» resistente nella Barbaria lontana dalle coste contaminate dallo straniero invasore, inaugurato da Lilliu a futura memoria di un neo-razzismo alla sarda che preme sul mondo culturale e politico di fronte alle spinte localistiche, rafforzate dalla difficile contingenza economica?

Ops, ho commesso una leggerezza: mi è scappata una parolaccia oscena… «paesaggio»… Avevo cercato di evitarlo per non irritare coloro che in Tuvixeddu vedono un’«opportunità di sviluppo», o il solito «polmone di verde pubblico», passando per il simbolo di una dominazione straniera da contrapporre ai nuraghi, unica «vera» espressione del «vero sardo» resistente. E invece il dagherrotipo è proprio questo, un paesaggio arcaico che ci racconta ciò eravamo un tempo, perché l’abbiamo determinato noi.

Che poco se ne sia parlato (per non dire nnulla) non deve sorprendere, perché in Italia, patria riconosciuta del «paesaggio» (ce lo invidiano tutt, nonostante la propensione a distruggerlo) è ormai categoria sconosciuta, così come quella di «opera d’arte». Ormai, dalle nostre parti, ci sono i «beni culturali» e le Disneyland della cultura capaci di generare reddito e sviluppo. Purtroppo, bisogna ammetterlo, anche a sinistra.

Facciamocene una ragione e speriamo che Zedda vada in controtendenza, come alcune dichiarazioni sembrerebbero suggerire: magari, per un caso fortuito, ci è capitato un politico che capisce la differenza tra «paesaggio» e «panorama». Potrebbe anche darsi che intenda preservare un paesaggio unico al mondo e lo speriamo, ma non perché sia unico: perché è «nostro», di Cagliari.

Anzi «è» Cagliari: riusciremo mai a capirlo?

 

gabriele.ainis@virgilio.it

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2 risposte a TUVIXEDDU: LA MARCIA DEI DIECIMILA

  1. Franco Laner ha detto:

    Straordinario! Sai anche scrivere cose eccellenti ed intelligenti senza pisciar fuori dal vaso!
    Per una cosa così, sopporto anche i vigliacchi anonimi.

  2. concordo pienamente, Tuvixeddu “è” un bel pezzo della nostra identità kasteddaia 😉
    Stefano Deliperi

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